Storia di un burnout
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Sono un’ infermiera pediatrica, lavoro in ospedale da oltre 30 anni. Ho lavorato in una neonatologia ed ora presto servizio in un reparto di pediatria generale. Ho scelto di fare questo lavoro all’età di 5 anni.
Durante la degenza per un intervento chirurgico subito a questa età, mi innamoro letteralmente delle infermiere che mi assistono e del loro lavoro e decido che “da grande” farò l’infermiera che guarisce i bambini. Ricordo che già alle scuole elementari e medie chiedo in regalo libri di puericultura, di ostetricia e ritaglio e conservo immagini di riviste con scene rappresentanti ospedali e reparti, meglio se pediatrici. Proseguo i miei studi con il liceo scientifico senza mai pensare di iscrivermi poi alla facoltà di Medicina. La mia ambizione e il mio obiettivo erano quelli di lavorare a contatto con i bambini in ospedale.
Mi immagino con la mia bella divisa e il solo transitare davanti ad un ospedale, sentirne l’odore, cercare di vedere oltre i vetri mi riempiono di emozione.
Mi iscrivo quindi alla scuola per infermieri pediatrici, denominata allora “Scuola per Vigilatrici d’Infanzia” e ricordo questi tre anni tra i più sereni ed entusiasmanti della mia vita.
La frequenza del corso è impegnativa e faticosa, con orari gravosi, ma il tempo vola. Durante le ore di tirocinio pratico vedo e applico le conoscenze che il corso teorico mi insegna. Ogni giorno una novità, molti reparti, nuove patologie da conoscere e bambini da curare, in un periodo sociale che si sta trasformando ed evolvendo. I genitori possono finalmente rimanere accanto ai loro bambini giorno e notte e non soltanto ad orari limitati. Tutti i reparti vengono forniti di materiali monouso e vengono utilizzati i primi pannolini usa e getta.
La gerarchia professionale si sente. I primari e le caposala sono vere e proprie istituzioni a cui tutti portano rispetto. La scuola è dura, ma il mio percorso è tutto in discesa. Nell’estate 1984 mi diplomo con un ottimo punteggio e il mondo si apre davanti a me.
Inizio a lavorare in un reparto di Neonatologia. Ricordo nei minimi particolari il mio primo giorno di servizio e la mia gioia. Adoro questo lavoro, ogni parto è un’emozione unica, i turni mi piacciono e gestisco anche molto bene il mio tempo libero. Con le colleghe ho un buon rapporto e con qualcuna stringo un legame di vera amicizia. I medici mi stimano e apprezzano il mio modo di relazionarmi e di lavorare. Sono orgogliosa del mio lavoro e dico con fierezza alle persone che sono un’infermiera che lavora in ospedale con i bambini. Dopo anni di servizio al Nido, la routine inizia a pesarmi un pò. Il lavoro è ripetitivo, il contatto con le colleghe troppo stretto. I neonati in quegli anni restano prevalentemente al Nido, solamente qualche anno dopo la mia assunzione iniziano le prime esperienze di rooming in, pratica che consente alla mamma di tenere accanto a se’ il proprio bimbo e non in una stanza comune con gli altri neonati. Dopo parecchi anni, per una serie di fortuite occasioni, si presenta l’opportunità di ottenere un trasferimento in un reparto di pediatria generale, dove vengono assistiti bambini da zero a quattordici anni. Qui ho la fortuna di incontrare un’equipe medica ed infermieristica meravigliose, entriamo subito in sintonia e i nuovi apprendimenti sono di grande stimolo. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, nuove tecniche infermieristiche, conosco e affronto nuove patologie e la maniera più corretta per assistere i piccoli pazienti. Gli anni trascorrono sereni e non penso mai ad un possibile cambio di lavoro, tantomeno ad un’attività in ambito territoriale. Per me il “vero” lavoro è in ospedale, lì trovo le mie soddisfazioni e le mie gratificazioni, e lì si compie la mia crescita professionale e personale. In reparto dimentico i problemi di casa (che nel corso degli anni sono stati tanti e alcuni molto pesanti sia psicologicamente che fisicamente).
Al lavoro sto bene, i bambini sono la mia passione, i genitori mi inteneriscono, provo per loro una forte empatia.
I ritmi di lavoro sono sostenuti, tuttavia riusciamo ancora a svolgere le nostre mansioni con la cura e l’ attenzione necessarie in tempi assolutamente accettabili. Si trova il tempo per la pausa caffè, per il confronto personale e per due chiacchiere con i colleghi, momenti che ci aiutano a sostenere le inevitabili tensioni emotive e lavorative.
Ma lentamente, molto lentamente le cose iniziano a cambiare… L’equipe medica si rinnova frequentemente con le relative difficoltà ad instaurare con tutti sinergie di lavoro ottimali. Alcuni pediatri se ne vanno, ne arrivano di nuovi e la capacità di adattamento reciproca non sempre risulta semplice. Rimane per anni il punto fermo del direttore di struttura, persona autorevole, preparata, che ci chiede impegno, ma che sa gratificare anche solo con uno sguardo. Si susseguono altri dirigenti, altri colleghi. Con qualcuno il rapporto esce dall’ambito lavorativo e diventa amicizia, stima e affetto reciproco. La coordinatrice è un punto saldo e si relaziona bene con tutto il personale. Capisce e conosce le attitudini e le difficoltà di ognuna e gestisce il reparto in maniera ottimale. Purtroppo per alcune colleghe e medici, che sono per me punti di riferimento, arriva il tempo della pensione. La loro assenza mi disorienta e sento forte la mancanza del loro sostegno. Subentrano altre figure professionali, altre colleghe i ritmi di lavoro si fanno più frenetici, aumentano le attività di reparto e piano piano la pediatria cambia volto. Con le colleghe appena arrivate e con i nuovi medici non sempre trovo affinità d’intenti e di obiettivi. Sono giovani, provengono da scuole con approcci al lavoro diversi dal mio e inizio a sentire che qualcosa dentro me sta cambiando, non funziona più. L’utenza (i pazienti diventano utenti) diventa sempre più difficile da accontentare. Diventa arrogante, prepotente e prevenuta nei confronti dei sanitari in generale. Le competenze genitoriali sono sempre più fragili. I genitori riversano sul personale tutte le loro ansie, che fortunatamente il più delle volte non trovano fondamento. L’infermiera è la prima figura che incontrano nel loro percorso e diventa il primo filtro sulla quale scaricano ogni richiesta.
Hanno fretta, non accettano che i loro bimbi si ammalino, non vogliono che la malattia del figlio diventi un ostacolo ai loro programmi. I bambini vengono abitualmente assecondati nelle loro richieste anche quando queste rallentano il processo di guarigione. E io… questo modo di essere genitori non riesco ad accettarlo. Questo lassismo si scontra con il mio modo di intendere l’educazione, di affrontare le difficoltà che inevitabilmente la vita ti presenta. La medicina diventa difensiva e i genitori vengono esauditi nelle loro richieste anche quando sono palesemente inutili ed inopportune. L’ospedale da alcuni anni è un’azienda e come tale pensa a far tornare i conti con tutte le conseguenze che questo obiettivo comporta.
Si bloccano per anni le assunzioni, si risparmia sul materiale e sulla sua qualità. Le previste e possibili migliorie strutturali del reparto vengono sempre rimandate. L’attività di Pronto Soccorso viene espletata in locali adiacenti al reparto di degenza con le inevitabili difficoltà di gestione per entrambe. Inizia una pesante insoddisfazione, i turni gravano sempre più e inizio a soffrire di emicrania con episodi che si presentano quindici/venti volte al mese. Vengo visitata da vari neurologi e tutti sono concordi nel dire che la mia emicrania sia correlata allo stress lavorativo, i turni certo non aiutano. Insieme all’emicrania si accentuano i disturbi del sonno e la mancanza di un adeguato riposo si ripercuote anche sul fisico. Fanno la loro comparsa disturbi di alimentazione incontrollata. Provo diverse terapie, tutte con scarsi risultati; solo l’arrivo della menopausa migliora l’emicrania diminuendo il numero delle crisi. Capirò dopo che l’emicrania, l’insonnia e le abbuffate sono le prime manifestazioni cliniche del Burnout.
La fatica ad andare al lavoro diventa ogni giorno maggiore, mi mancano le energie, la voglia e la motivazione. In reparto, pur restando la professionista attenta, scrupolosa e precisa che sono sempre stata, mi sento in un luogo che diventa ogni giorno più distante dalle mie aspettative. Le mie caratteristiche caratteriali e lavorative ampliano sempre di più il divario tra me e la mia professione. Il giudizio severo e a volte ostile (mai chiaramente espresso) diventa sempre più frequente e sofferto, sia con i pazienti, nella figura dei parenti, che con i colleghi. La delusione, l’inquietudine e la stanchezza iniziano a segnare la famiglia, le amicizie e non per ultimo il mio benessere psico-fisico. Io, amante della lettura, non riesco più a leggere. Viene meno la voglia e la capacità di concentrazione e da qui capisco che il malessere, sta diventando malattia. Raramente rido, anche quando sono a casa in riposo non riesco a rilassarmi, a staccare la mente e a godermi in nessun modo la giornata libera. Mi sento infelice e incapace di fare progetti. All’infuori dell’orario di lavoro non pratico più alcuna attività, nè ludica, nè sportiva. Cerco con interesse e fatica documentazione per capire cos’è e come si manifesta esattamente la sindrome del Burnout e con grande senso di fallimento e di paura capisco di esserne affetta. Leggo quali sono le caratteristiche caratteriali, emotive e professionali delle persone che vanno maggiormente incontro a questo insieme di sintomi e mi ritrovo in tutte le descrizioni. Il Burnout si sviluppa nelle situazioni in cui è forte il divario tra la natura della persona e quella del lavoro. Le richieste quotidiane lavorative e familiari consumano la mia energia e il mio entusiasmo e aumentano le reazioni negative e scostanti. A malincuore riconosco di essere diventata cinica e distaccata dalle situazioni che mi circondano siano esse generate dai colleghi e/o dai pazienti. Il cercare con tutte le mie forze di nascondere il mio atteggiamento freddo e distante non fanno che peggiorare la situazione. Si fanno frequenti l’irritabilità (che si manifesta soprattutto in famiglia), le crisi di pianto, la tachicardia e le vertigini e con grande sofferenza, senso di frustrazione e di colpa sento che è arrivato il momento di fermarsi, di prendere un lungo periodo di pausa. Mi devo arrendere poiché i sintomi sono troppi e la difficoltà ad entrare in reparto si fa ogni giorno più forte. Capisco che da sola, con le sole mie forze non riuscirò a risalire in superficie. Sono scivolata lentamente in un baratro profondo e decido di affidarmi alle cure degli specialisti.
Un’ottima psichiatra mi aiuta con la prescrizione di farmaci in grado di curare la sintomatologia psichica (ansia, depressione e insonnia) e una psicologa mi supporta con incontri settimanali duranti i quali inizio un percorso di terapia cognitivo-comportamentale che mi forniscono le strategie per affrontare buona parte dei miei problemi.
Ora a distanza di alcuni mesi di terapie e colloqui, posso dire di sentirmi meglio. Chiedo di essere trasferita dal reparto, in quanto ora mi sento incapace di frequentare e ritengo che l’unica soluzione (almeno per ora) sia quella di essere adibita ad un lavoro in ambiente extra ospedaliero che non preveda l’effettuazione di turni. Devo trovare una collocazione in cui lo stress sia contenuto e dove io possa svolgere le mie mansioni con maggior serenità per riconquistare il mio benessere emotivo e fisico, mantenendo comunque le mie peculiarità e le mie capacità professionali. Spero che il tempo e i cambiamenti mi aiutino a ritrovare lo slancio di un tempo in cui ero sicura di avere scelto e trovato il “mio” lavoro ideale.
Ho letto con interesse l’articolo. Ammiro la forza di raccontarsi e raccontare come si vive all’interno di un posto di lavoro dove si è costantemente sotto pressione. Lavorare in ospedale, su tre turni , 365 gg l’anno non è facile. Lo fai solo se hai PASSIONE per il lavoro che hai scelto.
Anche io ho vissuto una esperienza analoga, il mio burnout è sfociato dall’essere stata lasciata sola, in trincea in un momento di grandi cambiamenti organizzativi, politici. In quel periodo, in quel luogo,si era completamente perso di vista il punto di vista assistenziale per favorire una gestione politica della situazione, e questo mi faceva soffrire moltissimo. Ho cambiato luogo di lavoro, ho cambiato azienda e, a distanza di tre anni “ringrazio” il bunrout perchè il cambiamento mi ha permesso di riscattarmi a livello personale e professionale.
Ma non trovo giusto che in alcuni contesti di cura (ospedali) non ci si prenda cura delle persone che vi lavorano.
Complimenti per la forza.
Leggendo queste righe ho rivissuto la mia storia. Credo di non essere mai stata tanto male, di non aver mai sofferto tanto come negli anni della mia malattia. Il fatto di averci messo due anni a individuare il problema è dovuto al fatto che lavoravo in una struttura psichiatrica e che trovavo giustificazioni varie al fatto di essere sempre stanca, di non aver voglia di uscire, di aspettare il venerdì come una benedizione, di avere i conati di vomito quando arrivavo davanti al cancello della struttura, di non sopportare nessuno sul lavoro, di essere diventata aggressiva e intollerante verso gli utenti. Poi però ho dovuto aprire gli occhi, la mia vita stava andando a rotoli, ho perso tutto, la mia serenità, il mio compagno, la mia vita. Per due anni ho chiesto di essere trasferita, ho chiesto visite del medico competente che non mi sono mai state concesse. E alla fine ho perso anche il mio lavoro, perchè si mi hanno licenziata. Ho dovuto andare in terapia, ho dovuto elaborare il lutto, ho dovuto ricominciare da capo a cinquant’anni. Ho lavorato 10 anni per questa azienda che aveva pretese di politiche a favore dei lavoratori, per la mia mentalità aziendalista e perchè amavo il mio lavoro ho sempre collaborato accettando tutte le richieste dell’azienda, a volte negli anni mi hanno trasferita in una settimana a 80 km da casa. Accettare che come persona contavo così poco è stato davvero difficile. Trovo ingiusto che non ci sia tutela per chi contrae una malattia così devastante, che non vengano tutelati i lavoratori, che le aziende considerino dei pesi persone vulnerabili che hanno il solo torto di aver dato tutto al lavoro.